La verità nell’ombra

I raggi filtravano imperiosi nello spazio tra le dita, Giò osservava la sua mano scura che proiettava un’ombra sull’unico occhio aperto. Non si vedevano i calli, la pelle spaccata o le unghie scheggiate, solo lunghe dita ossute e tendini tesi come corde. La verità sta nell’ombra, pensava, abbassando la testa e tornando in quel torrido giorno di agosto.

Ogni tanto si estraniava. Seduto nel suo cantuccio ai margini di un edificio abbandonato, veniva risucchiato in un vortice senza confini. Roteavano intorno a lui briciole d’immagini, forse il passato, forse pensieri paralleli, ma qualsiasi cosa fossero avevano il potere di raccontagli un po’ di sé. L’unica cosa che era sicuro di possedere era il presente, tutto quello a cui aveva voltato le spalle gli era sfuggito di mano già da un po’. Non era bravo a ricordare, si confondeva sempre. Le case in cui aveva vissuto si avvicendavano mescolando pareti e sofà, a volte spuntavano giardini al secondo piano e cantine con i terrazzi, e i volti erano sempre tanti, troppi, ma sapeva con certezza che qualcuno doveva averlo amato. Lo sentiva dentro, quando un castano d’occhi gli pareva più familiare o la scia di un profumo gli ricordava un sorriso. Non il suo, quello di qualcun altro. Erano sensazioni potenti ma passeggere, come un colpo allo stomaco che lascia curvi per un po’, sebbene l’affondo non duri più di qualche secondo. Così se ne stava rannicchiato a guardare intorno senza vedere niente, gli occhi fissi e lo sguardo assente, perduto in qualche corridoio malfermo e poco illuminato della memoria. Chi lo conosceva aveva imparato a non disturbarlo quando si smarriva nei suoi viaggi. Era successo che qualcuno avesse cercato di ridestarlo, preoccupato per un assenza tanto concreta, allora Giò si scagliava come una furia contro chiunque si trovasse davanti. Diventava violento, urlava sputando offese miste a saliva. Il giallo dei denti usciva prepotente dalle labbra, i pugni si serravano, le braccia mulinavano. Il peggio erano gli occhi, sempre persi, ma accesi d’ira.

La maggior parte del tempo, però, era un uomo tranquillo. Nel quartiere lo conoscevano tutti, tirava su qualche soldo facendo lavori di facchinaggio e i bottegai gli regalavano il minimo per mangiare. Il forno all’angolo di via Tucci, la sera, metteva fuori il pane non venduto e Giò non perdeva occasione di farsi trovare nei paraggi. Ma non prendeva mai più di quello che gli serviva per un pasto, non era mai stato un uomo di grande appetito e non sopportava gli sprechi. Dopotutto non faceva nemmeno una brutta vita, dormiva al coperto, aveva buoni vestiti e un paio di scarpe quasi nuove. Aveva anche degli amici e, a parte quando la collera s’impossessava di lui, era considerato una buona compagnia. L’unica cosa che sopportava con fatica era il caldo sempre più pressante delle estati. Sentiva l’aria infiammargli i polmoni e schiacciargli il petto, l’unico sollievo che aveva era starsene nei rari coni d’ombra. Non poteva andare nei parchi, però, perché erano pieni di bambini che lo fissavano, e quegli sguardi così indagatori e giudicanti gli ricordavano qualcosa di antico, qualche male subìto e represso. Non gli restava che trascinarsi sui marciapiedi riarsi o lungo l’asfalto malfermo all’orizzonte, nel tentativo di evitare il più possibile l’indomita potenza del sole. Allora tornava nell’edificio, ma le pareti tra le quali dormiva diventavano una fornace già poco dopo l’alba, il caldo gli dava alla testa e l’ombra era piena di demoni che non lo lasciavano in pace. Nei cunicoli affollati della mente riaffioravano troppe cose, non avrebbe saputo dire cosa fossero tanto erano sfuocate. Di alcune voleva credere che fossero ricordi perché erano piacevoli e rincuoranti, seppure non nitide, altre invece si era imposto di considerale errori, tare di un pensare non più lucido da tanto tempo. Non poteva aver vissuto in quel modo, sopportato tutto il dolore. Chi mai farebbe certe cose a un altro essere umano? E poi quali cose, di preciso? Le sentiva cattive senza riuscire ad afferrarle veramente, ma non aveva mai voluto indagare, appena arrivavano le scacciava via perché era molto più facile accettare qualcosa se non si conosceva fino in fondo. Era in quell’ombra che la verità s’insinuava, che premeva per farsi ascoltare molestando il suo già vacillante equilibrio. Appena percepiva il pericolo Giò si allontanava dal riparo per lanciarsi in braccio al furore dell’estate, perché dopotutto era preferibile a quello dei suoi deliri. Anche adesso, seduto su una panchina di pietra sbeccata agli angoli, sfuggiva alla morsa dell’ombra lasciandosi scivolare addosso il sudore e un altro tramonto alle nove di sera. Aveva preso la sua pagnotta avanzata a la masticava piano, alzandosi ogni tanto per andare ad attaccare la bocca alla fontanella e trangugiare lunghi sorsi d’acqua calda.

«Giò, vieni al parchetto?» Gli chiesero un paio d’amici.

E poi c’era il parchetto. Se di giorno era pieno di bambini crudeli, la sera era conforto per corpo e mente. Il contatto con l’erba fresca era rigenerante, uno spiraglio di luce in giornate in cui la luce era stata insieme tortura e rifugio. Ma era una luce diversa, di quelle che illuminano dentro e non fuori.

«Arrivo» disse Giò. Poi prese una bottiglia vuota che sporgeva da un cestino, la riempì e se la mise in tasca. Inghiottendo l’ultimo boccone di pane raggiunse gli altri.

«Anch’io sono passato dal forno, vuoi un pezzo?» Uno degli uomini allungò una mano, tra le dita logore dal tempo e dallo sporco stringeva un pezzo di focaccia.

«No, grazie, sono a posto» gli rispose Giò, l’altro fece spallucce e la offrì al ragazzo alla sua sinistra, che l’accettò senza troppi complimenti.

Il buio della notte non era ombra, era quiete. Un piccolo pezzetto di veglia nel quale poteva smettere di chiedersi chi fosse stato e godere del bene che il cielo gli regalava. Un pezzo di pane fresco, una bottiglia nuova, qualche amico con cui parlare e brevi, dolci ore in cui sentirsi libero dalle maglie del passato ed essere soltanto Giò.

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