Nonostante le mani adesso fossero così vicine, strette una nell’altra, la distanza tra loro era comunque abissale. Sofia aveva preteso di restare lei la notte, a vegliare la madre. Tanto dall’anestesia non si sarebbe risvegliata che dopo alcune ore e il torpore vacuo del dormiveglia non le avrebbe permesso di riconoscere quale figlia fosse al suo capezzale. Ad assisterla nel silenzio di una stanza era la figlia sbagliata, che si stava destando grazie alle strisce di luce che le veneziane lasciavano entrare dalla finestra.
Sofia aprì gli occhi con fatica, per un attimo si chiese dove fosse. Poi l’odore delle lenzuola sterili e il loro spessore grezzo la riportarono alla realtà. Si era addormentata china sul letto, con la testa appoggiata sulle braccia. Alzò il viso e stiracchiò il collo indolenzito, poi si voltò a guardare sua madre. Dormiva serena, o almeno così sembrava. Non si ricordava di averla mai vista dormire. Di solito sono i genitori che s’incantano a guardare i bambini persi dentro a qualche giusto riposo, il contrario avviene solo nel momento in cui da genitori si ritorna figli. Sofia non aveva sul volto l’espressione di un genitore innamorato però, piuttosto si sarebbe potuto dire che i suoi occhi tradivano un accenno di preoccupazione. Il suo sguardo si posò sulla flebo che lasciava scendere lenta una goccia dopo l’altra, per poi spostarsi sui tubi di drenaggio e catetere e adagiarsi alla fine su quella mano che se ne stava molle nella sua. “Niente smalto e niente gioielli” avevano detto i medici. A Sofia sembrava una mano così nuda, nessun colore, nessuna pietra scintillante a dare risalto a quelle dita troppo ossute per essere delicate, scheletro ricoperto da una pelle tesa, quasi trasparente. Da piccola amava quelle mani, lunghe e agili, capaci di qualsiasi cosa. Da ragazza ne aveva temuto il fascino e da adulta le aveva odiate, specialmente quando le puntavano l’indice contro criticandola ingiustamente. Quelle accuse adesso giacevano ai lati del suo corpo, inermi, abbandonate al sonno imposto. Sofia era certa che, se avessero potuto combattere ancora, quelle mani non avrebbero esitato a farlo.
Il sole stava cominciando a salire, l’orologio appeso al muro indicava le sei e ventisette. Sofia si tirò su inarcando la schiena e allargando le spalle, poi si alzò per sgranchirsi. Tutto il reparto era ancora assopito, a malapena si sentivano passi leggeri calpestare il linoleum del pavimento. L’infermiera del turno di notte, una robusta signora sui cinquanta con il viso paffuto e la dolcezza negli occhi, era entrata più volte nella stanza per controllare la temperatura. Sofia l’aveva salutata ogni volta con un cenno del capo, chiedendole bisbigliando come stava andando, e lei, altrettanto sommessamente, le aveva risposto con un rassicurante “bene”. Era passata una volta in più di quanto si ricordasse però, la flebo era nuova. Doveva essere entrata in quel breve lasso di tempo in cui la sua volontà aveva ceduto il passo alla stanchezza.
Sofia si avvicinò alla finestra per guardare fuori. La vista dava sul cortile interno dell’ospedale; non c’era nessuno, fatta eccezione per due inservienti che aspiravano velocemente la loro sigaretta. Rattrappiti dal freddo, davano boccate veloci sputando fuori il fumo con le parole. Il cielo limpido lasciava sperare in una giornata serena, all’orizzonte il chiarore stava diventando corposo. Qualche uccellino faceva già sentire la sua presenza mentre le cime di alcuni alberi si muovevano lentamente scosse da una brezza leggera, la stessa che aveva infastidito i due inservienti. Sofia incrociò le braccia sul petto chiudendosi in se stessa, per un secondo le parve di sentire lo stesso brivido di freddo.
«Buongiorno, signora.» L’infermiera era entrata senza farsi sentire, e alle sue parole Sofia si riscosse dai propri pensieri.
«Buongiorno.»
«Sua madre ha passato una notte molto tranquilla.»
Sofia annuì. Era felice che le prime ore dopo l’intervento fossero state superate senza problemi, che fosse andato tutto bene. Peccato che quel “bene” che tanto la rassicurava, sua madre, nei suoi confronti, l’avesse rinnegato quasi tre anni prima.
«Le porto qualcosa di caldo?» le chiese, dopo aver annotato qualcosa nella cartella medica.
«Non si disturbi grazie, qualcuno verrà a darmi il cambio tra poco.»
«Io smonto tra un’ora, se ha bisogno mi chiami pure.»
«Va bene.»
L’infermiera uscì in silenzio com’era entrata; nello stesso silenzio Sofia tornò a guardare fuori.
Se lo ricordava perfettamente il giorno in cui le venne intimato di andarsene da casa. Ricordava la sua faccia, prima stupita, poi inorridita e alla fine furiosa. Rammentava con chiarezza le urla e lo sdegno, frasi uscite da quelle labbra tirate e rosse per andare a infrangersi contro la sua barriera, che si era mostrata da subito troppo fragile. Ogni parola era stata una pugnalata, ogni frase una nuova breccia. Così, con le macerie di quello che le restava di se stessa, aveva racimolato in fretta qualche vestito ed era andata a dormire da un’amica.
«Mi vergogno di te, mi fai schifo! Cosa penseranno adesso della nostra famiglia?»
Già, perché la preoccupazione più importante di sua madre era cosa potessero pensare gli altri, i borghesi come lei, i perbenisti. Guai a sfigurare ai loro occhi! Non le interessava invece di una figlia poco più che ventenne, di una ragazza che sapeva di trovarsi a percorrere una strada in salita, ma che sperava di poter contare sull’appoggio della propria famiglia. E invece no, due terzi del suo stesso sangue le avevano voltato le spalle. Solo Elena le era rimasta vicino ma, se suo padre fosse stato ancora vivo, era certa che le avrebbero combattuto a fianco. Giorgio invece aveva spalleggiato la madre fin da subito, il damerino primogenito più attento al lustro delle scarpe che a quello dell’anima. Così quella sera, sotto gli occhi furenti di sua madre, indifferenti di suo fratello e disperati di sua sorella, aveva chiuso la porta di casa e non ci aveva messo più piede. Ripensandoci, aveva bisogno di un caffè.
Prima di uscire dalla stanza, guardò verso il letto accertandosi che tutto fosse immutato, poi allacciò fino al collo la zip della felpa e uscì.
«Vado un attimo alla macchinetta» disse alle infermiere al banco.
«Se ha bisogno…»
«Non si scomodi, grazie.» Sofia alzò una mano in segno di riconoscenza.
I corridoi erano quieti, le luci ancora soffuse. Tra poco avrebbero cominciato a servire la colazione, ma in quel lasso di tempo tra la notte e il giorno conclamato, sembrava che tutto stentasse a svegliarsi. Oltrepassò una porta pesante e fece attenzione a non chiuderla poi, di fronte alla macchinetta del caffè, lesse per lo meno due volte l’elenco delle bevande a disposizione. Decise per un caffè espresso senza zucchero e tirò fuori dai jeans una manciata di spiccioli che infilò rapidamente nel distributore, il rumore meccanico la disturbò. Bevve a piccoli sorsi il caffè bollente, poi si accorse di avere fame. Altri spiccioli, altro rumore fastidioso. Tornò in reparto mangiando biscotti al cioccolato. Erano passati appena dieci minuti, ma la giornata aveva preso inizio. Le luci erano state accese e nelle camere qualcuno aveva già cominciato a tirarsi su dal letto. Una signora anziana che aveva conosciuto la sera prima la salutò con un sorriso. Arrivata alla stanza di sua madre, sentì delle voci.
«Ah eccola, ma dov’eri finita?» Giorgio la guardava severo. Sofia provò un immediato senso di tristezza per i suoi nipoti.
«Sono andata a prendere un caffè» gli rispose, oltrepassandolo.
«E non potevi fartelo portare?»
«Le infermiere non sono al mio servizio» disse, tralasciando il fatto che, in realtà, le fosse stato chiesto.
«Se ti sembra corretto aver lasciato la mamma sola…»
«Dove volevi che andasse?»
Giorgio si fece ancora più serio e stava per ribattere qualcosa, quando intervenne Elena.
«Saranno stati sì e no cinque minuti, non mi pare il caso di fare tragedie. E poi le infermiere sono proprio qui davanti.»
«Non ci si comporta lo stesso così, quantomeno è stata irresponsabile» disse Giorgio, stizzito.
«Come dici? Irresponsabile io? E chi è che ha aspettato a portare la mamma da un dottore perché non voleva ammettere che avesse un problema?»
«Che cosa ne sai tu che non ti fai mai viva?» ringhiò Giorgio.
«Non è certo per colpa mia!»
«Basta, smettetela! Ogni volta la stessa storia con voi due!» Elena si mise fra loro, cercando di troncare la discussione.
«Signori, vi ricordo che siamo in un ospedale. Se volete litigare siete pregati di accomodarvi fuori.» L’infermiera dal viso gentile si era affacciata alla stanza.
«Ci perdoni» bisbigliò Sofia, e fu l’unica a scusarsi.
«Come ha passato la notte?» le chiese Elena.
«Dora ha riposato molto bene, la temperatura non è mai salita e ha avuto un sonno tranquillo. Vostra sorella l’ha vegliata tutto il tempo, ma va detto che ha avuto vita facile» strizzò l’occhio a Sofia, che le sorrise. «Comunque adesso lasciatela riposare, tra poco passerà il professore per la visita.»
«Possiamo restare qui?» domandò Giorgio.
«Uno alla volta.»
«Io scendo a fare due passi» disse Sofia, raccogliendo lo zaino da terra e afferrando la giacca.
«Vengo anch’io» le fece eco Elena. «Giorgio, resti tu?» Lui annuì e loro uscirono.
Sofia rifece la stessa strada di poco prima, ma stavolta più in fretta. Elena faticava a starle dietro.
«Secondo te quanto riesce a essere stronzo da uno a dieci?» le chiese.
«Undici» rispose Sofia, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano. Quella frase era riuscita e farle riprendere un po’ di buonumore. «Tu come stai?»
«Bene, un po’ affaticata.»
«Lei come sta?»
«Oh, la signorina sta come un pascià» le rispose Elena, accarezzandosi il ventre rotondo.
Sofia si abbassò all’altezza della pancia di sua sorella.
«Stella, mi senti? Tuo zio Giorgio è un gran rompicoglioni, ma tu potrai contare sempre su tua zia Sofia, che poi sarei io.»
«Sì, ma anche lei ha una testa bella dura» intervenne Elena, con una smorfia. Lo stop dell’ascensore fece sussultare tutte e tre.
Uscirono dall’ospedale raggiungendo il cortile vicino e si sedettero sull’unica panchina al sole.
«Fa freddo, non serve che tu mi faccia compagnia. Torna dentro, dai.» Sofia si rivolse alla sorella con un tono quasi materno.
«Ma no, qui al sole si sta bene» le disse Elena, tirando sul il bavero del cappotto e serrando un po’ di più la sciarpa. Sofia la vide con la coda dell’occhio e scosse impercettibilmente il capo.
«E Laura come sta?» continuò Elena.
«Bene, ha avuto una promozione al lavoro.»
«Mi fa piacere!» disse Elena, forse con un po’ troppa enfasi. «È in gamba, se lo merita.»
«Già. Mi ha chiesto di andare a vivere con lei.»
«Ma dai? E tu cosa le hai risposto?»
«Ho preso tempo.»
«Non ti senti pronta?»
«Non lo so… è solo che mi sembra un po’ presto, ecco.» Sofia aprì con decisione la zip dello zaino e tirò fuori un pacchetto di Philip Morris. Ne sfilò una e l’accese. Appena vide che il vento stava portando il fumo da sua sorella si alzò e le si mise di fronte.
«Stiamo insieme da poco più di un anno, non è molto. Lei dice che così risparmieremo un affitto e ci potremo permettere di viaggiare di più, ma io non sono sicura che sia il passo giusto, non adesso almeno.»
«Poco più di un anno non è poco per capire se una persona va bene per te.»
«Non è nemmeno molto, però.» Sofia prese una lunga boccata di fumo. «Tu sei stata fidanzata con Alessio sei anni prima di sposarvi, no?»
«Ah, se fosse stato per me saremmo andati a vivere insieme dopo due minuti. Ma lui non era dello stesso avviso e la mamma non avrebbe mai accettato una convivenza senza matrimonio.»
«Beh, già deve sopportare la vergogna di una figlia lesbica, figuriamoci se anche l’altra vivesse nel peccato!» scherzò Sofia, amaramente.
«Se vai a vivere con Laura però puoi approfittare dell’offerta “due scandali al prezzo di uno”» sorrise Elena.
«Non ci avevo pensato, potrebbe essere un’occasione.» Sofia alzò gli occhi al cielo scrollando la cenere con un colpetto dell’indice.
Per un paio di minuti nessuna delle due disse altro. Elena si accarezzava la pancia e Sofia finì senza fretta di fumare. Il vento si era un calmato e il sole cominciava a far sentire un po’ di più il suo calore. Il viavai nel cortile aveva cominciato a farsi più vivace, uomini e donne lo attraversavano camminando in fretta, alcuni indossando solo il camice; passò l’infermiera e Sofia la salutò con un gesto della mano.
«Pensi che la mamma si rimetterà presto?» chiese poi a Elena, schiacciando il mozzicone sotto la suola della scarpa e gettandolo in un cestino poco lontano.
«Credo di sì. Il medico ha detto che l’operazione è riuscita, non dovrebbero sorgere complicazioni.»
«Ma perché Giorgio ha aspettato così tanto a farla visitare?»
«Lo sai com’è fatta mamma, non sta mai male fino a quando non sta troppo male.»
«Sì, ma lui avrebbe dovuto insistere.»
«Se è per questo avrei dovuto farlo anche io» disse Elena, chinando la testa. «Ma fra il matrimonio e la gravidanza… Comunque non intendo cercare scuse, l’ho trascurata punto e basta.»
«Ma non potevi saperlo, non ti ha detto nulla!»
«Me ne sarei dovuta accorgere.»
«Non ti dare colpe che non hai, l’importante è che adesso stia bene.»
«Sì, hai ragione» annuì Elena, cercando di scacciare via i sensi di colpa che ogni tanto sarebbero tornati comunque a farsi sentire.
Sofia prese a camminare su e giù lungo la siepe di buxus, piccole foglie verde chiaro spiccavano qua e là facendo uscire le piante dalla forma in cui erano state plasmate mesi prima. Guardava sua sorella senza farsi vedere, ritraendo lo sguardo ogni volta che stava per intercettare il suo. Era così buona con lei Elena, lo era stata fin da piccole. L’aveva sempre difesa dalle prepotenze di Giorgio, un ragazzino dispettoso che si arrogava il diritto di comandare solo perché era il più grande.
«Lasciala stare!» gli urlava Elena, quando Giorgio le nascondeva le bambole e le rovinava le costruzioni. Più di una volta Elena si era presa delle punizioni per aver spintonato Giorgio, che non mancava mai di farlo presente alla madre. Ma a Elena non importava delle punizioni, importava solo di proteggere Sofia. Da quando aveva messo i suoi occhi dentro quelli della sorella, ventiquattro anni prima, non aveva fatto altro. Sofia le era grata di tutte le attenzioni che le rivolgeva e che non aveva mai ricevuto da chi avrebbe dovuto dargliele grata per averle fatto da madre quando la madre aveva smesso di ricoprire il suo ruolo. Era certa che Stella sarebbe stata in ottime mani.
«Come ci organizziamo oggi?» chiese Elena.
«Cioè?»
«Per la mamma, dico. Giorgio tra poco dovrà andare in ufficio, io posso restare fino a mezzogiorno ma nel pomeriggio ho un’ecografia.»
«Io ho preso la giornata libera al lavoro, ma non credo che ci faranno restare» rifletté Sofia, aggiungendo poi un pensiero più cupo. «E non penso che lei voglia me.»
Elena vide sua sorella infilare le mani in profondità nelle tasche dei jeans, tirare su le spalle e nascondere il mento nel giaccone allacciato fino in cima. Sofia faceva tanto la dura, ma Elena sapeva che l’allontanamento da casa le faceva molto male. Lei era rimasta al suo fianco, se possibile le era ancora più vicina di quando vivevano sotto lo stesso tetto, ma non avrebbe mai potuto sostituirsi al bene di una madre, nemmeno con tutto l’impegno del mondo.
Erano sempre state in guerra Sofia e Dora, due poli uguali che non facevano altro che respingersi. Il polo che aveva sempre fatto da collante tra loro era il padre, poi però era morto e la distanza fra madre e figlia si era ampliata sempre più fino a diventare incolmabile. Dora riteneva la “scelta” di sua figlia come un atto di ribellione verso quella madre con cui non aveva mai avuto grande intesa, e Sofia non capiva che la rigidità di sua madre era solo la facciata dell’ignoranza. A entrambe sarebbe bastato ascoltarsi di più per assopire almeno un po’ le differenze che le dividevano. Elena le vedeva combattersi da lontano a colpi di non detto o di troppe parole, e a lei toccava stare in mezzo e sopportare le loro cocciutaggini. Dora aveva il torto di non accettare una figlia diversa da quella che avrebbe voluto, ma Sofia sbagliava a non concederle più tempo, e in quegli anni nessuna delle due aveva mai provato ad andare incontro all’altra. Eppure Elena sapeva che sua sorella voleva bene alla madre: si trovava lì e aveva trascorso la notte a vegliarla, se non le fosse importato niente non si sarebbe fatta vedere. E sapeva anche che Dora voleva bene a sua figlia, perché non mancava mai di chiedere a lei, con falso disinteressamento, come stesse. Il problema era che tutte e due rimanevano ostinatamente cementate sulle proprie posizioni, non capendo che molto spesso, a fare un passo indietro, si guadagna terreno.
«Secondo me ti sbagli, le farebbe piacere vederti»
«Non penso.»
«Io dico di sì.»
«Convinta tu…»
«Oh insomma, da qualche parte dovrete pur cominciare, no?» Elena si alzò spazientita. «Siete tutte e due testarde, non c’è verso di farvi ragionare!»
«Non mi sono cacciata di casa da sola» disse Sofia, affondando ancora di più le mani nelle tasche.
«Ma non ti ho nemmeno visto insistere troppo per tornare.»
«Io non torno da chi non mi accetta per quello che sono.»
«Le serve tempo, ma ti vuole bene.»
«Ha uno strano modo di dimostrarlo.» Sofia dette un calcio a un piccolo sasso, facendolo atterrare qualche metro più avanti. Abbassò la testa decisa a fissare il suolo, le sopracciglia increspate sopra lo sguardo cupo.
«Sofi, questa cosa non finirà mai se una delle due non farà la prima mossa.» Elena si avvicinò a sua sorella.
«Che la faccia lei.»
«Non la farà.»
«Perché allora dovrei farla io?»
«Perché tu hai la forza e l’umiltà.»
Sofia guardò sua sorella, che le si era piazzata davanti e la scrutava con un’aria decisa. Capì che non avrebbe mollato.
«In ogni caso non penso che mi farebbero restare» disse, voltandosi.
«È una camera pagante, non ci saranno problemi.»
Sofia prese un’altra sigaretta e l’accese aspirando con forza, poi getto pacchetto e accendino di nuovo nello zaino. Si mise a camminare dietro la panchina, su e giù, senza dire niente. Era combattuta tra quello che avrebbe dovuto fare e quello che il proprio carattere le suggeriva, una guerra in cui si trovava immersa da molto tempo. Sapeva benissimo cosa andava fatto, ma il suo orgoglio e un forte senso di auto protezione finivano sempre per impedirglielo.
«È che non so come reagirà, ok? E neanche come potrei reagire io.»
«Ma stanotte…»
«Stanotte non conta, stanotte dormiva.»
«Conta per te.» Elena le si avvicinò sopportando il fumo. «Se non ti fosse importato di lei non ci saresti stata, e non dirmi che era solo un dovere di figlia.»
Sofia schiacciò il mozzicone a terra con decisione, poi lo raccolse e lo gettò.
«Certo che m’importa, non sono di ghiaccio» disse. «Ma non so quanto a lei importi di me» aggiunse poi, a voce più bassa.
«Tu, lei… e io? A me chi pensa?» Elena si alterò. «Non fate altro che riversarmi addosso problemi e lamentele e io devo ascoltare senza ribattere, adesso mi sono stufata!» Gesticolava animatamente, sbattendo le braccia. «Tu mi dici che non ti accetta e che una madre dovrebbe voler bene ai figli in ogni circostanza. Lei mi dice che tu non la rispetti e che dovresti capirla. Ma di come mi sento io vi è mai importato? Sto qui a fare da bersaglio a ogni frecciata nella speranza che prima o poi si vuoti la faretra. Ma no, quasi ogni giorno l’arco scocca più volte. Santo cielo ma quando vi decidere a crescere?»
«Ma è lei che dovrebbe…»
«È possibile sia sempre responsabilità dell’altra? Vi sento dire ‘è lei che dovrebbe’ da così tanto tempo che ormai siete diventate noiosamente prevedibili. Un ‘io’ non l’ho mai sentito, però.»
«E cosa dovrei fare, sentiamo?» Sofia incrociò le braccia sul petto.
«Parlale.»
«Ogni volta che ci ho provato abbiamo litigato.»
«Perché ogni volta ti sei posta nel modo sbagliato.»
«E come?»
«Attaccando invece di difendere.»
«È lei che attacca me.»
«Perché tu le offri l’occasione giusta.»
«E ti pareva che fosse colpa mia!»
«Non si tratta di colpe, ma di buonsenso» Elena aveva ripreso il suo tono normale, materno e delicato. «Devi essere tu a iniziare Sofi, ma devi farlo nel modo giusto.»
«Perché io?»
«Perché lei non lo farà, e lo sai bene.»
Sofia si sedette di nuovo sulla panchina, abbandonandosi allo schienale. Poi si piegò in avanti appoggiando gli avambracci sulle gambe e cominciando a strofinarsi le mani una nell’altra. Elena le chiedeva tanto, molto più di quanto si sentisse di dare. E non perché non ne avesse il desiderio, quanto perché temeva le mancasse la forza. Era bravissima a tenere testa a sua madre, abbassarla invece non sarebbe stato facile le sembrava una sconfitta, un tradimento verso tutta se stessa. Elena intuì i suoi pensieri.
«Non devi pensare che sia una resa» disse, sedendole accanto. «Vedila come una vittoria invece.»
«E chi vincerebbe, io o lei?»
«Tu, perché metteresti da parte l’orgoglio in nome di qualcosa di più grande.»
Sofia sembrò pensarci su, poi scosse il capo.
«Non mi accetta per chi sono e io non cambierò, che senso ha provare ancora?» chiese più a se stessa che a sua sorella.
«Ha senso perché vi volete bene, ma avete lasciato che questo bene venisse schiacciato. Ha senso perché siamo una famiglia, perché ci unisce qualcosa di più grande delle etichette e perché voglio che mia figlia non sia costretta a vivere questa situazione.»
Elena vide sua sorella gettare una rapida occhiata alla sua pancia, così insistette. «Io vi voglio entrambe nella mia vita, nella nostra vita, insieme. Voglio mia madre e mia sorella sedute allo stesso tavolo a festeggiare una nuova nascita, voglio vedervi piangere alla sua prima recita. Ma soprattutto voglio che voi due riusciate a superare i vostri rancori una volta per tutte.»
«Non sarà facile…»
«Lo so che non sarà facile, vi conosco troppo bene per sperare il contrario. Ma ho fiducia in te, che saprai avere abbastanza giudizio per tutte e due.»
«E la mamma non dovrebbe avere giudizio?» chiese Sofia, in un moto di rabbia.
«Lo avrà, ma non comincerà mai per prima.»
Elena aveva ragione e Sofia lo sapeva bene. Dora era una donna tutta d’un pezzo, cresciuta in un rigore ancora più rigido di quello in cui aveva allevato i propri figli. Non avrebbe mai ceduto terreno fino a quando qualcun altro non l’avesse messa di fronte alla strada giusta. Quel qualcuno una volta era suo marito, l’unico che riuscisse a persuaderla e da cui Elena sembrava aver ereditato il magnetismo.
«Ti prego Sofi, pensaci» Elena prese una mano di sua sorella. «Lo so che ti chiedo molto, ma non posso contare su nessun altro.»
«E con Giorgio come la mettiamo? Quello lì mi odia…»
«Ma no che non ti odia, è solo troppo pieno di sé. Ci penso io a lui» disse Elena, calandosi ancora nei panni della sorella maggiore.
«Io non lo so…»
«Oh ti prego! Ti prego! Ti prego! Ti prego!» Elena balzò in piedi e cominciò a saltellare su e giù.
La sua determinazione era palpabile, Sofia capì che sua sorella non avrebbe lasciato perdere. In quegli anni non doveva aver avuto vita facile dividendosi fra lei e la loro madre e comprendeva anche la sua frustrazione. Doveva essere stato stancante.
«Magari resto un po’ con te stamattina, da sola non so se potrei farcela…»
«Oh grazie, grazie, grazie!» Elena le si buttò addosso per abbracciarla, sbilanciata dal peso che portava addosso. Sofia si trovò sommersa da un profumo dolce e fresco e da sua nipote che si muoveva contro il suo petto. Per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.
«Giorgio dev’essere già andato via, torniamo in camera» disse Elena, guardando l’orologio dopo essersi raddrizzata con un po’ di fatica.
S’incamminarono facendo la strada a ritroso. Il passo di Sofia era più lento che all’andata, lo zaino appeso a una spalla e le mani nel giaccone. Si sentiva calma fino a quando non varcò la soglia del reparto.
«Ele, io non so se ci riuscirò…»
«E no eh? Non mi mollare ora!» Elena la prese a braccetto e la trascinò oltre la porta. «Siamo una squadra noi tre, avanti fino alla meta.»
La meta che diceva Elena era piuttosto lontana però, e per raggiungerla era necessario battere un percorso molto tortuoso. Sofia non sapeva se ce l’avrebbe fatta, ma sapeva che sua sorella non l’avrebbe mai lasciata sola.
Si fermarono sulla porta della camera; l’infermiera stava dando da bere a Dora, ormai sveglia. Elena si precipitò da lei.
«Mamma, come stai?» le chiese, ma per paura di farle male si trattenne dall’abbracciarla.
«Bene, considerato tutto» rispose Dora, la voce ancora un po’ impastata.
«Vuoi che ti sistemi un po’ i cuscini?» Senza aspettare una risposta, Elena sollevò delicatamente la testa della madre perché potesse stare un po’ più su. L’infermiera la guardò senza intervenire.
«Va meglio?»
«Sì, grazie.»
«Il medico è già passato?» chiese Elena all’infermiera.
«No, arriverà tra poco.»
«Bene, così ci possiamo parlare.»
«Se avete bisogno chiamate, il campanello è qui» disse l’infermiera prima di uscire, indicando un piccolo telecomando vicino al letto. Dora e Elena la ringraziarono con un cenno del capo.
«Giorgio è andato via poco fa, mi ha detto che ripasserà stasera.»
«Sì, siamo arrivati insieme un’oretta fa» le disse Elena, sedendosi.
«E stanotte chi è rimasto? Non tu, spero» protestò Dora, guardando sua figlia.
«Sono rimasta io.» Sofia avanzò di mezzo passo nella stanza. Elena non si era accorta che non fosse entrata con lei e Dora non l’aveva vista.
«Sì mamma, Sofia è stata qui tutta la notte.» Elena le si avvicinò accompagnandola al letto. «Giorgio ha l’ufficio e per me sarebbe stato un po’ pesante, così si è offerta di restare a vegliarti dopo l’intervento» si affrettò ad aggiungere. Un improvviso senso di calore le fece togliere in fretta il cappotto.
Sofia non sapeva dove guardare. Seppure avesse osservato sua madre per gran parte della veglia, adesso quel volto stanco le sembrava troppo difficile da sostenere. Non disse nulla e non sapeva se augurarsi che a parlare cominciasse per prima lei, perché temeva cosa avrebbe detto. Vedeva Elena starsene in silenzio tra di loro, in attesa che una delle due facesse una mossa, una qualsiasi. La vedeva sulle spine e in quel momento capì tutta la speranza che sua sorella riponeva in lei. Il peso che aveva sentito fino a quel momento d’improvviso si alleggerì, inducendola a muoversi.
«E come ti senti?» chiese a sua madre.
«Come se mi avessero operato al cuore» le rispose.
Sofia, sulle prime, non seppe come prendere la risposta di sua madre, poi la vide sorridere. Era ironia, non cattiveria.
«Spero di non averti dato troppo disturbo, comunque» aggiunse poi Dora.
«Nessun disturbo. La notte è andata bene, non hai avuto febbre e hai riposato tranquillamente.»
Elena assistette allo scambio di battute senza intervenire, pregando intensamente perché nessuna delle due si lasciasse sfuggire le redini di mano. C’erano stati altri incontri come quello in passato, ma adesso sapeva di poter contare su Sofia, anche se non si fidava affatto del temperamento della madre. Invece Dora non aggiunse niente, limitandosi a socchiudere gli occhi mentre guardava fuori dalla finestra. Restarono tutte e tre in silenzio, forse per il timore di dire qualcosa di sbagliato o di non dire qualcosa di giusto. Sofia ai piedi del letto, Dora distesa e Elena tra loro quasi a fare da collante, il polo opposto che mancava da tanto tempo. Tutte e tre intente a fare del loro meglio per ristabilire un contatto, più o meno consapevolmente. Il prezioso mutismo di quel momento era perfettamente consono a sottolineare un bene sottinteso che si provava ma non veniva detto. Sofia lo riscoprì, Dora se ne convinse di nuovo ed Elena lo accolse con tutti e due i cuori che battevano in lei. Sofia si avvicinò al letto con passo deciso e prese una mano della madre tra le sue, la distanza adesso non le sembrava più così incolmabile.
«Sono felice che stai bene» le sussurrò, sull’orlo delle lacrime. Dora non disse niente, ma condivise la stessa commozione. Elena non aggiunse altro, e quel silenzio parlò per tutte e tre. Non erano servite molte parole e nemmeno gesti eclatanti. Era bastato far tacere il lato ammaccato del cuore e lasciare libero tutto il resto.