Sesto senso

All’improvviso Clara si vide dall’alto, come nell’inquadratura di un film. La macchina da presa saliva e lei diventava sempre più piccola, con la cornetta ancora appoggiata all’orecchio ed il respiro spezzato in gola. Dall’altra parte c’era lui con le sue parole, che erano rimaste sospese nell’aria come dense nuvole di fumo, formando una coltre pesante e scura. Trent’anni gettati via in pochi attimi, trent’anni passati tra alti e bassi, ma pur sempre insieme. Una vita di progetti sbriciolata in pochi istanti e, in tutto questo, nemmeno il coraggio di guardarla in faccia.

Luglio era attanagliato da un caldo appiccicoso e pressante che non lasciava tregua nemmeno la notte. Le giornate scorrevano lente in attesa del tramonto, sperando che il buio portasse con sé un po’ di refrigerio. I ragazzi passavano molto tempo fuori casa in piena euforia estiva, gli esami erano finiti e si godevano il giusto riposo. Alberto si alzava ogni mattina molto presto, come lei d’altronde, ed insieme facevano colazione. Era sempre stato il loro rito: ritagliarsi qualche minuto prima che tutto avesse inizio. Prima dei pianti dei bambini, dei pannolini da cambiare, delle corse verso la scuola o l’ufficio. Si prendevano un po’ spazio per svegliarsi con calma, raccontarsi i sogni, bere il caffè a piccoli sorsi guardandosi negli occhi. Col tempo quel rito era diventato un’abitudine consolidata che però, con il passare degli anni, aveva mutato d’intensità fino a diventare solo uno scambio di ‘buongiorno’. Clara all’inizio di quel cambiamento si era preoccupata, poi aveva deciso di attribuirlo alla frenesia della quotidianità, o forse le aveva fatto comodo crederlo.

Quella mattina era uscita molto presto di casa, lasciandola immersa nel silenzio più totale. Fabio e Andrea dormivano, probabilmente li avrebbe visti affacciarsi alla cucina poco prima dell’ora di pranzo, e Alberto era partito alcuni giorni prima per un viaggio di lavoro. Godendo del sollievo momentaneo che regalava l’aria fresca della notte, era andata al mercato ortofrutticolo e dal fornaio, tornando a casa che non erano ancora le otto. Nonostante il caldo si era messa a preparare la marmellata di pesche, la preferita da Alberto. Ne era goloso, ne consumava ogni mattina intere cucchiaiate. Le era piaciuta l’idea che al suo rientro ne avrebbe trovata in quantità, così come aveva in programma di preparare il suo piatto preferito per cena, quella sera. Una strana inquietudine però le albergava dentro da quando si erano salutati, lunedì mattina. Un sensazione spiacevole, come di fastidio e di sconforto, anche se non sapeva identificarla bene. Che fosse un campanello d’allarme del senso senso femminile? Decise di non pensarci, mettendosi a lavare la frutta.

Guardando fuori dalla finestra, mentre l’acqua fresca scorreva sotto le sue mani, vide la vecchia altalena appesa ad un ramo dell’imponente quercia. Un albero bellissimo e maestoso alla cui ombra si erano consumate innumerevoli estati. Clara non sapeva da quanto fosse lì, quando lei e Alberto avevano comprato la casa la quercia c’era già. Era stata testimone di giochi, pianti, bagni in piscina, temporali, pic-nic, feste. Più di vent’anni a guardare la vita scorrere, anche quella volta che, giovani, innamorati e un po’ folli, avevano fatto l’amore ai suoi piedi. Sposi da poco, il fuoco della passione ancora dentro, il brivido del proibito. Avevano scelto una notte senza luna, sfidandosi per gioco, ma quel gioco era diventato sangue ed il sangue trasporto. Si domandarono cento volte se qualche vicino li avesse visti e, mossi più dalla paura che frenati dall’imprudenza, non osarono più farlo. Sorridendo tra sé a quel ricordo Clara si sedette al tavolo e cominciò a tagliare le pesche. Il succo dolce e un po’ appiccicoso le colava fino ai gomiti, erano così mature che non sarebbe servito nemmeno il coltello per separarle dal nocciolo. Ne mise un pezzo in bocca, gustandolo. Era squisito, sapeva di luglio. Sapeva di tramonti alle nove di sera, di insalate di frutta, di cocktail consumati in spiaggia. Finì e andò ai fuochi. Versò un po’ di zucchero sulle pesche e accese, attese che il tutto cominciasse a bollire piano e poi salì al piano di sopra.

Per le scale fece piano, attenta a non svegliare i ragazzi, andò nella sua stanza e cominciò a rassettare. Stava già entrando aria calda dalla finestra, ma decise di non chiuderla subito. Tolse le lenzuola dal letto gettandole a terra, poi stese quelle pulite con gesti abili e conosciuti. Profumavano di lavanda. Canticchiava tra sé serenamente, felice perché la sera avrebbe rivisto suo marito. Ultimamente i viaggi di lavoro erano diventati più frequenti, con l’aumentare dell’anzianità lavorativa aveva ottenuto una promozione e doveva occuparsi anche dei contratti fuori dalla regione. Il suo lavoro le aveva permesso di restare a casa ad occuparsi della crescita dei ragazzi e anche di vivere abbastanza agiatamente, però i giorni in cui mancava da casa le pesavano sempre un po’. Certo, non è che non ci fosse abituata. In altre occasioni aveva dovuto assentarsi così spesso e così a lungo, per sostituire un collega o per altre esigenze aziendali, ma era sempre stato per brevi periodi. Solo in un’occasione, dodici o tredici anni prima, fu costretto a frequenti trasferte. Andò avanti per più di un anno, una settimana su due la passava lontano da casa. Poi finalmente la direzione assunse altro personale e Alberto poté tornare ad una vita più tranquilla, con la piena soddisfazione di Clara e dei bambini.

Tolse alcune camicie fresche di lavanderia dal cellophane e le mise nell’armadio, i completi di Alberto erano sistemati in bell’ordine. Era un uomo elegante e pieno di fascino, sempre impeccabile, mai trasandato. Non usciva di casa senza giacca e cravatta nemmeno in estate, e nel tempo libero amava comunque vestirsi bene. Pochette nel taschino, orologio di prestigio, ben rasato e fresco di dopobarba. Un uomo dallo stile d’altri tempi, cosa che contribuiva ad alimentare la sua attrattiva. Molte donne gli avevano fatto la corte, Clara da giovane ne era stata gelosissima. Anche se lei non aveva niente da invidiare alle più belle ragazze della città, con la sua silhouette esile e l’incarnato chiaro, vedere le altre che facevano le smorfiose con lui la faceva imbestialire. Ma alla fine Alberto, con un savoir-faire da divo di Hollywood, la tranquillizzava sempre dicendole che lui amava lei e lei soltanto. Così, da moglie di uno dei uomini più desiderati, alla fine si pavoneggiava camminando al suo braccio ogni volta che uscivano insieme.

Mettendo le camicie nell’armadio Clara notò che ne mancavano parecchie, almeno una decina, e anche tre completi. Probabilmente Alberto, dato il caldo infernale di quei giorni, aveva preferito essere prudente e portare più cambi. Mancavano anche alcune cravatte e due coppie di gemelli, ma Clara non gli dette molto peso. Sapeva che era un uomo impeccabile per cui non se ne meravigliò più di tanto. Chiuse la finestra e stava per uscire dalla stanza quando, passando davanti allo specchio, nella penombra, vide la sua figura riflessa. Nonostante i suoi cinquantatré anni aveva ancora un bel corpo. Abbastanza tonico, anche se con qualche chilo di troppo, e non troppa cellulite. Il seno era quello che aveva patito di più dalle due gravidanze, ma fortunatamente la pelle era rimasta elastica senza subire smagliature. Si domandò se Alberto amasse ancora quel corpo come quando erano giovani, come quella notte sotto la quercia. Non facevano più l’amore molto spesso, anzi negli ultimi mesi era capitato davvero di rado. Era successo più di una volta che lei prendesse l’iniziativa e lui la rifiutasse, dando la colpa alla stanchezza, però le volte in cui si trovavano era sempre bello. Ormai conoscevano molto bene i reciproci punti deboli e i pulsati da premere per accendere il piacere. Sapeva di amiche che, invece, non avevano più una vita intima con il marito e nemmeno gli mancava, lei invece ne sentiva ancora il desiderio ed era felice che con Alberto quell’aspetto fosse sempre vivo e soddisfacente.

Il resto della giornata passò alla svelta, tra l’allegra frenesia dei ragazzi e l’afa pesante. Clara aveva trascorso gran parte del pomeriggio a sistemare casa, verso le cinque poi aveva cominciato a preparare la cena. La ricetta in realtà non era difficile, ma aveva voluto fare con calma per non sbagliare qualcosa. Aveva anche fatto in tempo a preparare una buona macedonia fresca da abbinare con il gelato alla vaniglia, che non mancava mai nel freezer. Alberto avrebbe dovuto essere a casa per le sette o poco più. Apparecchiando la tavola, aggiungendo finalmente il quarto piatto, aveva prestato la massima attenzione. Acqua fresca già nella brocca, vino stappato per far prendere aria e tovaglioli di stoffa. Era tutto pronto.

Arrivarono le otto e Alberto non era ancora tornato. Alle otto e mezzo Fabio e Andrea si misero a tavola e cenarono, non aveva senso farli aspettare oltre, oltretutto era venerdì e avevano i loro impegni. Preoccupata Clara aveva già mandato un paio di messaggi al cellulare del marito, senza nessun esito, e se telefonava trovava il telefono non raggiungibile. Poco dopo le nove i ragazzi uscirono e lei rimase sola con la sua angoscia. Due ore di ritardo non erano molte, ma la mente di Clara non poteva fare a meno di immaginarsi scenari terribili. Le venne in mente di chiamare qualche collega di Alberto, ma non aveva i numeri dei cellulari e gli uffici della sede, ormai, erano chiusi. Allora pensò di provare con gli ospedali, ma non aveva idea della strada che avrebbe fatto per tornare a casa né a che ora fosse partito. Sapeva solo che era stato a Roma, stop. In un impeto di rabbia prese il telefono e provò ancora a chiamarlo, niente.

«Accidenti a te!» disse, riferendosi sia al telefono che ad Alberto. Perché non l’avvertiva mai quando si metteva in macchina? Adesso poi, con i cellulari, era quasi impossibile non rimanere in contatto. Ed ecco ancora quella sensazione di fastidio e sconforto, prima assopita e ora tornata in tutta la sua prepotenza.

Clara stava per provare ancora una volta, quando sentì squillare il telefono di casa. Svelta si precipitò a rispondere.

«Pronto?» l’ansia le fece alzare un po’ il tono della voce.

«Ciao, sono io.»

Clara sentì giungerle calda la voce di Alberto e tirò un sospiro di sollievo. Lo aveva immaginato accartocciato su un guardrail o sotto un tir, adesso almeno sapeva che era vivo.

«Alberto ma dove sei? Stai bene?» si affrettò a chiedergli.

«Sì, sto bene» rispose lui, asciutto.

«Ti aspettavamo più di due ore fa, cosa è successo? Ero preoccupata da morire. Non riuscivo a chiamarti, i messaggi non ti arrivavano, ho pensato di tutto.»

«Sì, scusami, avevo da fare.»

«Lasciamo stare dai» sospirò Clara, sollevata. «Piuttosto a che ora torni?»

«Non torno Clara.»

«Non ce la fai stasera? Ti hanno trattenuto a Roma?»

«Non sono a Roma, sono a Torino.»

«Ti hanno spostato?»

«No, sono sempre stato qui» la voce di Alberto era diventata più dura, distaccata.

«Non capisco, mi hai detto che andavi a Roma…»

«Clara ascoltami» la interruppe Alberto. «Non è che non torno a casa stasera, non torno a casa più.»

Quelle parole lasciarono Clara prima interdetta, poi impietrita. Non sarebbe tornato più. Non era a Roma, era a Torino e non sarebbe tornato più. Clara scosse il capo e si riprese da quello che aveva sentito.

«Che significa che non torni più?»

«Che ho conosciuto una persona, mi sono innamorato e voglio stare con lei.»

«Co…come? E quando è successo?»

«Sei mesi fa.»

Sei mesi fa, a Gennaio. Quando aveva ripreso a giocare a tennis, quando aveva cambiato la macchina, quando aveva cominciato a non toccarla più.

«Mi dispiace dirtelo così Clara, ma ho aspettato per avere la certezza di amarla davvero» continuò Alberto, sfruttando il silenzio della moglie.

«E quante altre volte hai dovuto prendere in considerazione i tuoi sentimenti per un’altra donna?» Clara serrò la presa intorno alla cornetta.

Ora tornava tutto, i suoi cali di attenzione, le trasferte per lunghi periodi… Probabilmente quella di dodici anni prima non l’amava poi troppo, visto che non era rimasto con lei.

«Adesso non fare così.»

«Così come, la moglie gelosa? La moglie possessiva? Non me lo hai mai permesso perché sapevi comprarmi con i tuoi modi. ‘Non ti preoccupare’ mi dicevi, ‘amo solo te, nel mio cuore ci sei solo tu’. Nel tuo cuore forse sì, ma nel tuo letto adesso ne dubito.»

«Ora esageri, a sentirti sembra che io abbia avuto schiere di amanti!» protestò Alberto.

«E non è così?»

«No, non è così.»

«E allora dimmi, quante ne hai avute?»

«Sei ridicola» sbuffò lui.

«Ah io sarei ridicola? Con quale coraggio… Scommetto che la donna che dici di amare ha sì e no la metà dei tuoi anni.» Alberto non rispose, il suo silenzio era un chiaro segno di assenso.

«Ha l’età dei tuoi figli, per l’amor di Dio!» Clara si passò una mano sulla fronte.

«Non tirare in mezzo i ragazzi» le intimò lui.

«Ah no? E cosa pensi che dovrei raccontagli? Non sono dei bambini Alberto, hanno il diritto di sapere.»

«Glielo dirò io.»

«E quando?»

«Non lo so, fra un po’ di tempo.»

«E domattina quando mi chiederanno dov’è papà cosa dovrei dirgli? Io non gli racconterò una bugia.»

«Non lo so… Vedrò di chiamarli in giornata, domani.»

«Già, per telefono… come hai fatto con me.»

«Volevi che venissi lì a dirtelo in faccia?»

«Avrei preferito, sì.»

«Magari per subirmi una delle tue scenate, come no.»

«Non dare a me la colpa delle tue azioni, Alberto. Non sei tornato a casa e non mi hai detto tutto guardandomi negli occhi solo perché sei un vigliacco» sentenziò Clara.

«Io non sono un vigliacco!»

«Oh sì invece, lo dimostra il fatto che io stia parlando con te attraverso una cornetta telefonica. Non hai avuto il coraggio di dirmelo di persona nascondendoti a cinquecento chilometri di distanza e dall’altra parte di un filo.»

Ci fu un momento di silenzio, nel quale Alberto non seppe ribattere e Clara riprese un po’ la calma. Si sentiva il cuore in gola, avvampata dal fuoco dell’ira. Sapeva bene che quell’emozione ben presto avrebbe lasciato il posto al dolore, ma per adesso provava solo una grande rabbia.

«Senti non voglio discuterne più» riprese Alberto, «ormai ho preso la mia decisione. Il nostro matrimonio era finito da tempo, quando ho incontrato Paola mi sentivo già libero dal nostro legame.»

Paola. Perché aveva voluto dirle come si chiamava? Il nome la rendeva più vera, più concreta, il nome la rendeva odiabile. Come del resto già odiava lui, nonostante l’amasse. Ma sentire dalla voce di suo marito che, per lui, il loro matrimonio era finito la ferì profondamente. Perché lei non si era accorta di nulla? Perché non aveva mai notato il suo cambiamento? Forse la risposta era che non aveva voluto vedere. Probabilmente, se Alberto fosse stato lì, lei avrebbe davvero fatto una scenata isterica, ma almeno avrebbe buttato fuori quel tornado di emozioni che le faceva formicolare la mani e torcere lo stomaco. Così invece non aveva nessun diritto di replica, così non poteva vomitare tutto il male che le era nato dentro.

«Da quanto tempo?» gli chiese, riemergendo dai suoi pensieri.

«Da sei mesi, te l’ho detto.»

«No, da quanto tempo è finito il nostro matrimonio?» precisò Clara.

«Perché vuoi parlare di questo ora?»

«Sei tu che hai cominciato questo gioco crudele Alberto, per cui adesso continuiamo. Da quanto tempo ritieni finito il nostro matrimonio?»

«Questo non è un gioco Clara.»

«Strano, io mi sento tanto una pedina.»

«Perché dici così?»

«Perché tu non mi hai mai detto niente. Forse io sono stata un’ingenua, cieca davanti alla verità, però tu non me ne hai mai parlato. Non sei venuto da me a dirmi come ti sentivi o cosa provavi, a dirmi che per te non avevamo più futuro, che era finita. Mi stai confessando tutto al telefono, ora, solo dopo che hai trovato una donna con cui andartene via, con cui ricostruire la tua felicità. E io Alberto? Io, in tutto questo, che ruolo ho avuto? Per quanto tempo ho vissuto nella menzogna?»

Alberto stette ancora in silenzio, incapace di rispondere. Che fosse per vigliaccheria o per riguardo a Clara, tacque.

«Quanti anni? Uno? Due? Cinque? Dieci? Da quanti anni tolleri la mia presenza in casa invece di amarmi? Da quanti anni fai l’amore con me senza il minimo coinvolgimento?»

«Clara non mi sembra il caso di…»

«Da quanti anni Alberto!»

«Dalle vacanze in Andalusia» rispose Alberto di getto.

«Quattro anni» concluse Clara, facendo un rapido calcolo. «Quattro anni e non mi sono mai accorta di niente. Mi sento così stupida» disse fra i denti, abbassando il campo.

«Ti giuro che ci ho pensato tanto, che ho provato in mille modi.»

«Sì ma da solo, sempre da solo. So benissimo che non sono perfetta, che ho i miei difetti e so rendermi insopportabile quando voglio. So di non essere una donna facile e che la vita matrimoniale, a lungo andare, ci deteriora un po’. Ma avrei preferito che ne parlassimo, magari anche che chiedessimo aiuto a qualcuno, che ci prendessimo un po’ di tempo per capire. Però immagino di non aver mai avuto voce in capitolo, vero? Hai deciso tutto tu e adesso io mi ritrovo fra le mani il nostro matrimonio finito, senza nemmeno sapere se avrei potuto aiutarci in qualche modo. E’ una cosa brutta Alberto, una cosa terribile non aver potere sul proprio futuro perché non ti viene nemmeno concesso di provare.»

Con le lacrime agli occhi Clara non disse più niente, sperando che suo marito tornasse sui propri passi, che le dicesse che aveva preso un grosso abbaglio e sarebbe tornato da lei. Ma conosceva quell’uomo da quasi tutta la sua vita e sapeva che, quello, sarebbe rimasto solo un sogno.

«Quando torno in zona passo a prendere alcune cose, ti avvertirò un paio di giorni prima» disse poi Alberto con voce tranquilla ma ferma, confermando i timori di sua moglie. «Mi dispiace Clara, è andata così. Non è colpa tua, è solo mia. Salutami i ragazzi, ciao.» concluse poi, riagganciando.

Clara rimase immobile con il telefono all’orecchio ancora per alcuni istanti. ‘Mi dispiace… Non è colpa tua… Salutami i ragazzi…’, le parole continuavano a girarle in testa. Un addio frettoloso, impersonale, asettico. Un addio tanto definitivo quanto crudele, che l’aveva lasciata inerme e zitta, immobile e ancora appesa ad una conversazione che le aveva completamente frantumato la vita.